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venerdì 11 luglio 2014

Batterie agli ioni di litio 2.0

Se siete nostri lettori affezionati, sicuramente saprete che la nostra redazione ha molto a cuore il tema della tecnologia che sta alla base della realizzazione delle batterie.


Sebbene siamo consapevoli del fatto che la completa indipendenza dei devices, da una rete energetica classica, sia davvero troppo avveniristica, auspichiamo, da tempo, l'avvento di celle performanti che permettano a smartphone, tablet, notebook, robot casalinghi e perché no, anche automobili elettriche, di raggiungere autonomie sempre più decorose.

Per capirci, un notebook con autonomia di 2 ore è davvero anacronistico. Che senso può avere un dispositivo portatile, se lo devo collegare alla rete ogni due ore di lavoro? Ecco perché la soluzione scelta da Apple per i suoi Macbook (circa 9 ore di autonomia) sembra davvero più compatibile con le esigenze quotidiane di un utente medio. La combinazione di capacità estesa e ottimizzazione dei processi di carica/scarica, ha reso possibile un risultato davvero insperato, fino a qualche anno prima.

Il progresso non si ferma e, ciò che noi auspichiamo da molto tempo, potrebbe essere presto realtà.

I ricercatori del Bournes College of engineering presso l'University of California Riverside, infatti, hanno sviluppato una nuova batteria agli ioni di litio che supera di tre volte le prestazioni delle medesime batterie, attualmente disponibili.


Qual è l'"ingrediente segreto"? Pare possa essere la silice, che andrebbe a costituire l'anodo della cella.

L'idea è venuta a Zachary Favors (studente del Bournes College) che, durante una passeggiata sulla spiaggia, avrebbe realizzato come la sabbia (composta da  fosse composta sostanzialmente da quarzo), un materiale che risulta essere particolarmente promettente per lo sviluppo di batterie ad alte prestazioni.


La ricerca di Favors si è orientata verso il miglioramento delle caratteristiche dell'anodo, il polo negativo di una batteria, che viene comunemente realizzato impiegando la grafite. Questo materiale però è ormai arrivato al limite delle sue possibilità e non è più in grado di sostenere quelle esigenze di densità di carica e di energia che oggi e in futuro si riveleranno indispensabili per l'evoluzione del panorama elettronico.

Le attività di ricerca nel campo delle batterie si stanno muovendo su una strada che prevede l'impiego di silicio su nanoscala, che però risulta difficile da produrre in grandi quantità e può degradarsi velocemente. E' a questo punto che entra in gioco il quarzo, che altro non è che diossido di silicio.


Favors si è procurato della sabbia ad alta concentrazione di quarzo, che è stata sottoposta dapprima ad una lavorazione per portarne la granulometria nell'ordine dei nanometri ed in seguito ad una serie di processi di purificazione che hanno trasformato il suo colore dal marrone ad un bianco candido. Quanto ottenuto è risultato simile, per colore e aspetto, allo zucchero a velo.

La polvere di quarzo purificata è stata sottoposta ad un ulteriore processo: dapprima miscelata con sale e magnesio (presenti disciolti in grandi quantità nell'acqua marina) e quindi riscaldata. Il sale ha assorbito il calore, permettendo al magnesio di legarsi con le particelle di ossigeno presenti nel quarzo. Favors ha così ottenuto una polvere di silicio puro, per di più nanoscopico.

Ma c'è di più: il silicio risultante mostra una struttura porosa, come fosse una spugna, caratteristica altamente desiderabile per la realizzazione di un anodo per batteria, e proprio ciò che ha consentito di triplicare le prestazioni, dati alla mano dai primi test di laboratorio effettuati, rispetto alle batterie odierne.

E' il sacro graal: una maniera economica, non tossica e amica dell'ambiente per produrre anodi ad alte prestazioni per le batterie agli ioni di litio

ha commentato Favors.

I ricercatori stanno ora lavorando ad un metodo per produrre il nanosilicio su larga scala, partendo dalla polvere di quarzo, e per realizzare batterie simili a quelle presenti negli smartphone di oggi.

E' la rivalorizzazione di ciò che già abbiamo, la strada perseguita da Favors. Quanto ci impiegherà ad essere implementata su larga scala, questa tecnologia? Ci auguriamo non troppo.

In ogni caso, poi, rimarrebbe un altro aspetto da valutare, per quanto concerne le batterie, ovverosia il ciclo utile del prodotto e il deterioramento delle stesse. 

Se è vero che una batteria agli ioni di litio, installata su un notebook, subito dopo l'acquisto può durare 3 o 4 ore, per quanti cicli conserverà le sue performance attuali?
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martedì 8 luglio 2014

Il risparmio energetico mondiale passa dall'ottimizzazione dei protocolli per i dispositivi in stand-by

Un nuovo report di International Energy Agency punta il dito contro l'inefficienza energetica di alcuni apparecchi tecnologici. Se, al momento dell'utilizzo risultano funzionali e sempre più indispensabili, quando vengono messi in stand-by, quale sarà la loro efficienza?


Dagli studi condotti dalla IEA, le evidenze non lasciano spazio a dubbi: ogni anno ci costa circa 60 miliardi di euro.

Dite la verità, chi non vorrebbe una casa su misura d'uomo, che svolga esattamente tutti quei compiti più noiosi e faticosi, a cui la vita domestica ci ha abituati? 

Ecco perché la domotica ha preso sempre più piede nella nostra realtà abitativa. Quest'ultima però, non è altro che un insieme di sensori e di dispositivi elettronici "always-on" energivori. Per quanto si analizzo solo ed esclusivamente l'aspetto della comodità e, talvolta, della moda, si dovrebbero mettere in conto anche gli sprechi degli stessi apparecchi quando sono in "stand-by".

Proprio su questo verte la ricerca svolta dall'International Energy Agency, che nell'ultimo report, stabilisce che, complessivamente, ogni anno si sprecano 80 miliardi di dollari a causa dell'inefficienza tecnologica.

Secondo l'IEA, nel mondo sono presenti 14 miliardi di dispositivi connessi ad internet (modem, stampanti, console da gioco, apparecchi per la TV) che hanno consumato nel 2013 circa 616TWh (616 * 1012 watt per ora). 

Una quota pari a circa 400TWh è da attribuire esclusivamente alle tecnologie di standby poco efficienti. In prospettiva, si tratta di una cifra equivalente al consumo energetico combinato di Regno Unito e Norvegia, di un anno intero.

La radice del problema, secondo l'IEA, è da ricercare nella cattiva gestione energetica dello "stand-by di rete" dei dispositivi di oggi, ovvero il protocollo che consente al dispositivo di mantenere attiva una connessione di rete anche quando non in uso, in attesa di svolgere la propria funzione principale. Molti dispositivi di rete consumano in standby la stessa energia richiesta quando pienamente attivi, in base a quanto si legge sul resoconto dello studio di IEA.


Il fenomeno potrebbe addirittura evolversi in negativo entro il 2020, lasso di tempo in cui si potrebbe arrivare ad uno spreco quantificabile in 120 miliardi di dollari ogni anno. Entro la data fissata dall'agenzia arriveranno in commercio molte altre tipologie di dispositivi connessi ad internet, come lavatrici, frigoriferi, forni o termostati.

Non fare più uso di dispositivi connessi ad internet non è certamente la soluzione al problema. La IEA si rivolge ai produttori, ad esempio, consigliando loro l'uso di componenti elettroniche più parche nei consumi o l'adozione di software maggiormente ottimizzato. Solamente questa piccola pratica potrebbe abbattere il consumo annuo del 65%.

Nei prossimi anni, l'uso delle più recenti tecnologie e l'applicazione di misure volte all'efficienza energetica potrebbero tradursi in un risparmio di circa 600TWh (600 * 1012 watt per ora) che, secondo il report, potrebbero permettere di avere 600 milioni di tonnellate di anidride carbonica in meno nei nostri cieli, prodotta da ipotetiche duecento centrali standard a carbone da 500 Megawatt (10watt).

E l'utente finale, può fare qualcosa per arginare il fenomeno? Evidentemente ognuno di noi può premurarsi di disconnettere le spine a TV, decoder, modem, stampante per in estate, durante le ferie estive o comunque nei periodi in cui si sta lontano da casa per qualche giorno. 

Basterebbe questo, se fatto su scala mondiale, per risparmiare circa 65GWh (65 * 10watt per ora)

Se volete approfondire l'argomento e avere maggiori dettagli, potete consultare il PDF rilasciato dalla IEA a questo link.
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martedì 1 luglio 2014

Dragonfly minaccia le aziende energetiche

È stata denominata operazione Dragonfly e prende il nome dal gruppo di hacker che l'hanno compiuta a partire dal febbraio del 2013.


Ecco di cosa parleremo oggi, cercheremo di capirci di più, a proposito della scoperta fatta dagli esperti di Symantec.

Si tratterebbe di un'organizzazione criminale che, aveva come obiettivo i principali colossi energetici di tutti i continenti, comprese alcune compagnie italiane.

Se la guerra come l'abbiamo studiata sui libri (dalle Guerre persiane ai due conflitti mondiali, ecc.) è mutata nel tempo, fino a trasformarsi in Guerra fredda, con URSS e USA a farla da padrone, ora le strategie belliche hanno raggiunto una nuova frontiera. Ancora più subdola e strategica, la Cyber-war, non si disputa più sul campo, si combatte in rete, colpendo i punti nevralgici e le risorse di uno o più Paesi.

Come già anticipato, il target di riferimento dei Dragonfly  era costituito da aziende a vario titolo impegnate nel settore energetico; ciò che ancora non sapevamo è che, queste ultime, sono state fatte oggetto di attacchi di phishing mirati.

Il messaggio email inviato proveniva da un indirizzo di Gmail e come allegato aveva un file .PDF realizzato appositamente per infettare il PC remoto con il codice di Oldrea, un trojan che permetteva così di portare l'attacco a una fase successiva.


Con Oldrea sul sistema remoto c'era la possibilità per Dragonfly di entrare in contatto con un server C&C attraverso il quale era possibile aggiornare il malware, cambiare la payload e condurre altre azioni. Oltre a questo trojan Dragonfly ha fatto uso anche di Karagany, un malware di tipo simile a Oldrea e disponibile da anni nell'underground del web.

Pare che Dragonfly abbia modificato il codice di Karagany per i propri scopi.

Anche attraverso azioni di watering fall, il codice malevolo è stato portato sui sistemi delle vittime: in questo caso Dragonfly ha compromesso alcuni portali utilizzati dagli utenti, riuscendo così a trasferire su PC client il malware.

Nel tempo, Dragonfly ha affiancato all'utilizzo dei due malware appena indicati e alle azioni di watering fall, un ulteriore sistema. Siamo infatti a maggio 2013 quando Dragonfly è stata in grado di compromettere i server utilizzati da varie software house per distribuire i propri prodotti e relativi aggiornamenti: anche in questo caso si tratta di software tipicamente utilizzati da aziende impegnate nel ramo energetico. A questo punto, è davvero evidente che al centro dei progetti Dragonfly, c'erano proprio le Società energetiche.

Tutto questo lavoro, cos'ha portato nelle tasche di Dragonfly? Pare proprio che, secondo il report di Symantec, ad interessare ai cracker erano le credenziali di accesso ai vari sistemi informatici e alcuni file di setup, per gli impianti di distribuzione energetica. Sono quindi informazioni delicate e si va ben oltre al semplice fine dimostrativo: infatti, questo materiale potrebbe essere rivenduto, o riutilizzato per ulteriori azioni.


Chi sono i cracker alle spalle di Dragonfly? Attualmente non è ben chiara la loro identità, ma secondo alcune evidenze che Symantec ha voluto condividere, analizzando il codice malware si è notato che la sua creazione è riconducibile al fuso orario di Mosca e, dettaglio non di poco conto, le attività venivano condotte in giorni e orari lavorativi. Si potrebbe, quindi, ipotizzare che, chi ha orchestrato Dragonfly (oppure chi è stato incaricato/pagato per fare un'operazione simile) abbia operato dalla Russia.

Per ammissione di Symantec stessa le modalità di azione con cui è stata condotta Dragonfly assomigliano ad altre attività malevole organizzate ai danni di enti governativi. Pare si sia trattato di un'operazione di spionaggio industriale a tutti gli effetti: le informazioni trafugate al momento attuale non sono ancora state usate per eventuali azioni di sabotaggio, ma non è detto che tali dati possano essere riutilizzati in futuro.


Da parte degli esperti di sicurezza c'è il forte sospetto di trovarsi di fronte a un'azione le cui motivazioni siano di origine geopolitica. Stiamo infatti parlando della Russia e le cronache degli ultimi mesi descrivono uno scenario geopolitico molto complesso nel quale, ad esempio, il comparto energetico è decisamente strategico.

Ricordiamo che la Russia è uno dei principali fornitori di gas di mezza Europa (e forse più), è nel bel mezzo di una lotta di potere con l'Ucraina e ha deciso qualche giorno fa, di adottare i chip Baikal, sostituendo quelli attualmente installati (Intel) sui 700 mila personal computer degli organi di governo e delle imprese statali, per scongiurare le minacce e le insidie sulla privacy poste in essere dalla National Security Agency.

Sempre dalla Russia arrivano i fratelli Nikolai e Pavel Durov, che con il loro Telegram stanno insediando il fortunato (e subito agguantato da Facebook) whatsapp. L'ennesimo gesto di forza, di una nazione che non ci sta ad essere seconda a nessuno.

Tornando alla Cyber-war, Symantec ha condiviso le proprie informazioni con altri colossi della sicurezza: infatti, in casi come Dragonfly esiste un vero e proprio network tra le aziende che serve a diffondere in tempi rapidi tutti i dettagli delle minacce. Gli utenti oggetto di questo tipo di attacco sono ora protetti e Symantec al momento attuale continua a monitorare la situazione per rilevare eventuali evoluzioni. Dopo aver garantito la sicurezza delle infrastrutture è però necessario che le autorità di polizia facciano il proprio lavoro di indagine, e a tal fine sono stati informati tutti i CERT (computer emergency response team) coinvolti.

Symantec non divulga i nomi delle aziende coinvolte, ma c'è un dato che deve invitare all'attenzione anche per il nostro Paese: l'8% degli attacchi condotti da Dragonfly hanno coinvolto aziende italiane impegnate nel campo energetico. Nella classifica stilata dagli esperti si posizionano davanti a noi Spagna, USA e Francia.

Non è la prima azione di cybercrime clamorosa, infatti, nel 2006 è stata l volta di Stuxnet: un virus informatico creato e appositamente diffuso dal governo degli Stati Uniti, nell'ambito dell'operazione "Giochi Olimpici" iniziata da Bush nel 2006 e che consisteva in un "ondata" di "attacchi digitali" contro l'Iran, in collaborazione col governo Israeliano nella centrale nucleare iraniana di Natanz, allo scopo di sabotare la centrifuga della centrale tramite l'esecuzione di specifici comandi da inviarsi all'hardware di controllo industriale, responsabile della velocità di rotazione delle turbine, allo scopo di danneggiarle.

Nel caso di Dragonfly lo scenario è ben diverso: il target non è circoscritto come per Stuxnet e ha coinvolto aziende di tutto il pianeta. In questo caso, inoltre, ci si è fermati all'azione di spionaggio senza portare a termine atti di sabotaggio vero e proprio.

Siamo sicuri di poter stare tranquilli? La risposta è evidente.
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